L’incontro con Mario Soldati. Di Federico ed Emanuele Morino.

La nostra famiglia, genitori e nonni è nata e vissuta ad Orvieto.  Noi figli, siamo stati fatti nascere lì, salvo poi venire e abitare a Roma pochi giorni dopo essere stati messi al mondo. Evidentemente il tufo di questa magica città etrusca è entrato dentro di noi, se è vero che poi abbiamo sentito il bisogno, attraverso la nostra Enoteca, di portare e far conoscere a Roma l’essenza più autentica e profonda di questo paese di cui siamo innamorati: il profumo e il gusto del suo vino, il piacere e la gioia che può dare la sua degustazione.

In realtà, in qualche modo, il vino di Orvieto è sempre appartenuto un po’ alla storia della nostra famiglia. Nonno Sergio, figlio di contadini, da bambino andava nei campi intorno a Orvieto a curare le vigne, imparando ben presto, attraverso tante vendemmie, i segreti del vino e della sua conservazione.

Vista di Orvieto

Le vigne da cui si produce l’Orvieto.

Da adulto è diventato enologo creando e gestendo una delle più belle cantine di Orvieto, proprio nel centro medioevale. Si trattava di un ex-rifugio tedesco scavato nel tufo durante la guerra.  Il nonno alla fine degli anni ‘50 lo ha trasformato in una cantina stupenda, con cunicoli profondi dove le botti potevano scendere solo utilizzando lunghi bastoni appoggiati sui bordi delle scalinate di tufo e scivolare, trattenute da corde abilmente manovrate. La produzione di vino era di qualità e limitata, destinata solo a privati e per il ristorante di famiglia gestito dal fratello del nonno, lo zio Dino, situato proprio di fronte alla cantina e che portava il nostro nome “Ristorante Morino”.

Il babbo ci ha raccontato che lui praticamente è nato in questa cantina, e con una battuta, che però corrispondeva a verità, da piccolo la mattina beveva “latte e vino”. Da ragazzino, durante le vacanze estive, lui era incaricato dell’imbottigliamento dei fiaschetti, chiamate “pulcianelle”, che servivano per il ristorante. Il vino si mesceva dalle damigiane attraverso un tubo di gomma e, in mancanza di congegni automatici di oggi, per far salire il vino nel tubo era necessario aspirare direttamente dall’apertura libera del tubo che poi si inseriva nel fiaschetto. Il babbo, le prime volte, non era veloce nell’operazione e si faceva, non volute, delle grandi sorsate di vino.

La cantina era comunque un posto magico dove, oltre a botti di castagno antiche di tutte le dimensioni, si trovavano nicchie scavate nel tufo piene di bottiglie vecchie di decine d’anni, pareti piene di muffe bianche o colorate di rosa, esaltate da accorte e rispettose illuminazioni, i cui odori uniti ai profumi del vino producevano qualcosa di inebriante e unico.

Il babbo ci racconta che i turisti e gli avventori del ristorante, che spesso accompagnava in visita in cantina, rimanevano estasiati. Per pochi eletti c’era anche l’esperienza unica e irripetibile di assaggiare il vino direttamente dalla botte. Si scendeva fino al punto più basso di un cunicolo della cantina, dove bisognava coprirsi per la bassa temperatura e dove il respiro si condensava in una nuvola di vapore. Lì si toglieva il tappo da una botticella e si infilava nell’apertura superiore la pipa (in dialetto chiamata “saggiarola”), si chiudeva l’apertura della pipa con il pollice aspirando così il vino dalla botte e rilasciandolo poi dalla pipa direttamente nel bicchiere; un vino fresco, brillante e appena frizzantino. Bisognerebbe provare almeno una volta questa esperienza nella vita. Il profumo del vino che si confonde con quello della cantina, il sapore unico di questo nettare preso direttamente dalla botte, il vino che frizza nel bicchiere in modo naturale e alla giusta temperatura, il colore biondo messo in risalto, nel buio della cantina, da piccole luci nelle pareti, creano un misto di sensazioni per le quali ti senti veramente un tutt’uno con ciò che stai bevendo, che percepisci vivo e animato perché è accolto nel suo habitat naturale.

Forse è stato proprio per tutto questo, oltre che per la qualità del vino prodotto, che Mario Soldati all’inizio degli anni ’70 ha inserito la cantina del nonno nel suo itinerario enogastronomico dell’Italia, dedicando cinque pagine del suo libro “Vino al Vino, alla ricerca dei vini genuini” a Orvieto, al suo vino e alla Cantina Morino.

Ecco uno stralcio dei passaggi più significativi estratti direttamente dal libro, interessanti soprattutto per la storia del vino di Orvieto, di come si faceva il vino cinquant’anni fa, ma straordinariamente attuali anche a distanza di tanti anni:

Mario Soldati nella cantina Morino a Orvieto

Mario Soldati nella Cantina Morino. Dal libro “VINO AL VINO” edito Mondadori, 1976

‘Orvieto è costruita sulla cima piatta di una immensa rupe bruno-giallastra di tipo vulcanico, dalle pareti a picco, quasi muraglie anche di duecento metri di altezza. Questa rupe sorge come un’isola sul piano del fiume paglia ed «è tutta crivellata di caverne naturali, in cui per secoli e secoli il vino di Orvieto fermentò».

L’Orvieto abboccato si fa lasciando che le uve incomincino ad appassire dopo che sono state raccolte: non sulla vigna come per i Sauternes sviluppando la muffa nobile. A Orvieto, le uve sono stese entro cassette aperte, nelle cantine di tufo fino a che vengono pigiate. Curiosamente, ne risulta un vino piuttosto leggero, delicato, soltanto semidolce niente di così succulento e stucchevole come il Sauterne e il passito tedesco”.

Perfino dai fratelli Morino, Sergio e Dino, i più seri perché non i più famosi produttori di Orvieto, il vino abboccato incontra ormai sempre meno dell’asciutto. Il loro padre, il loro nonno, il loro bisnonno, tutti facevano l’Orvieto. E la loro cantina, tutta scavata nel tufo, e incastrata nelle fondamenta di un palazzo del XV secolo proprio nel centro a due passi dal celebre Duomo, la si potrebbe definire il duomo dell’enologia.

Non avevo mai bevuto il vero Orvieto, perché l’Orvieto in Italia, merita la triste palma di essere stato falsificato fin dal 1924, con grande anticipo su tutti gli altri vini. Posso dunque dire di aver bevuto per la prima volta il vero Orvieto, solo ora entrando in questa cantina.
Il momento magico dell’incontro, e ancora di più naturalmente del “primo incontro”, avviene non quando lo si assaggia ma quando, riempito di un terzo il bicchiere, lo si fiuta. Ecco la composizione delle uve tradizionale: 60% Trebbiano Toscano, che qui chiamano Procanico, 20% Verdello, 15% Malvasia, 5% Grechetto. La misura della mistura, come del resto accade anche nel Chianti, è già fatta “in vigna” secondo una costumanza plurisecolare. È probabile che lo straordinario profumo di questo Orvieto secco dipenda dal Verdello, sinonimo di Verdicchio Bianco; e così pure il retrogusto come di noci che si trova assaggiandolo. Ma sospetto invece, ricordando il Riesling o il Moscato d’Amburgo, che il profumo, come tutte le altre doti del vino, sapore colore leggerezza forza, dipendano non tanto dai vitigni quanto dal modo con cui ciascun vitigno reagisce al clima del luogo, e all’orientamento della vigna, alla natura del terreno e ai minerali che vi si trovano diffusi.

Sergio Morino conferma l’importanza del terreno: «Il miglior Orvieto, il più delicato e profumato, lo si produce con le uve di due zone: Monte Rubiaglio, a nord ovest di Orvieto, e dalla parte diametralmente opposta, a sud est, Castiglione in Teverina. Le due zone si compensano stranamente secondo le condizioni meteorologiche dell’annata: se la estate è secca, meglio Castiglione, meglio Rubiaglio, se è umida. Le vigne sono un mosaico di piccole, piccolissime proprietà. Noi comprimo le uve. E le portiamo ad Orvieto in una cantina di tufo simile a questa in cui siamo; simile, ma separata, lontana, per evitare che la “fermentazione tumultuosa” contagi i vini avviati alla tranquillità o già tranquilli che si conservano qui, per la seconda fermentazione e per l’invecchiamento. Nella prima cantina, a livello del suolo e molto areata rimane per circa tre mesi. Sviniamo dopo otto giorni: quello, si chiama “il fiore”; il resto “vinelli. Dopo un mese, un primo travaso e un primo filtraggio al sacco. Alla fine di gennaio, lo trasporto qui. E prima della luna di marzo secondo travaso e secondo filtraggio, con dischi di amianto a pressione. Vedo che lei storce la bocca, ma le garantisco che questi filtraggi non impoveriscono le sostanze organolettiche. Bisogna però evitare durante i filtraggi e i travasi il contatto con l’aria. Per la conservazione uso fusti di castagno da 800 a 1500 litri. Ora se voglio un vino un po’ più abboccato, uso botti grandi, in cui la superficie che lascia passare per osmosi l’aria è, relativamente al volume del vino contenuto, minore. Se voglio un vino più asciutto, uso botti piccole, dove avviene il contrario. L’aria in questo caso fa del bene al vino, ma si tratta di un minimo, di quella pochissima che può filtrare attraverso le fibre delle doghe di castagno. Per l’abboccato, si riduce il periodo della prima fermentazione da otto giorni a sei. Se poi voglio fare un po’ di spumantino, imbottiglio durante la luna di marzo un certo quantitativo di vino, cioè della vendemmia precedente. Per tutti gli altri vini, dopo due anni di botte opero una selezione tenendo conto delle analisi chimiche, degli esami organolettici e delle necessità di mercato. Se, all’analisi, l’acidità fissa è particolarmente alta, quella partita viene destinata all’invecchiamento. Quello che invecchia sta nelle botti fino a cinque anni, poi in bottiglia. Ma la cantina deve essere come questa: asciutta, fresca d’estate e tiepida d’inverno, buia e soprattutto senza scosse: L’Orvieto ha un certo corpo».  

Dopo queste parole di Sergio Morino, io Mario Soldati, invece, posso concludere che l’Orvieto ha un profumo e un sapore così sottili che, a tutta prima, gli si suppone un corpo molto più leggero. Chissà che questa contraddizione non corrisponda al suo fascino misterioso: vino etereo e vulcanico, vino di sole e di caverna, vino asciutto con un fondo dolceamaro, vino soprattutto delicato e unico.

Testo tratto dal libro “VINO AL VINO, alla ricerca dei vini genuini”, Mario Soldati, Mondadori, 1976

Vista di Orvieto al tramonto

Orvieto, città magica sospesa nel tempo.